Economisti o credenti?

Economisti o credenti? Molti di noi sentono parlare nella loro coscienza entrambe queste voci. Come assegnare le precedenze? Come pensare alla convivenza umana? Quali criteri sarebbe meglio adottare quando si è chiamati ad organizzare la società?

Probabilmente un cattolico puo’ votare per qualsiasi partito. Puo’ votare a sinistra perché la “solidarietà” resta un valore evangelico. Puo’ votare a destra perché la “tradizione” è da sempre un faro della Chiesa. Puo’ votare i partiti liberali perché in fondo adora un Dio che pretende di essere adorato solo da uomini liberi.

Personalmente, poi, conosco cattolici sinceri di tutte le fedi politiche.

Ognuno riesce con gran destrezza a far convivere fede politica e fede religiosa. Magari facciamo i salti mortali per far quadrare il cerchio, ma alla fin fine escogitiamo un modo per pacificarci e lasciar spazio al problema successivo.

[… solo un gustoso esempio capitatomi giusto l’ altra settimana: non sono molti i racconti evangelici  in chiara consonanza con i valori della modernità, uno potrebbe essere quello che narra a parabola dei talenti. Un altro pensavo che potesse essere il miracolo dei pani e dei pesci. Ho sempre ritenuto che questo miracolo mettesse in evidenza, tra le altre cose, che per distribuire il necessario occorra prima moltiplicarlo. L’ ideologia “produttivista” era confortata da questa semplice osservazione. Ma ecco che ieri, nel corso della trasmissione radiofonica Uomini e Profeti, il perspicace teologo valdese Paolo Ricca si ritrova a commentare proprio questa eloquente pagina. E cosa sceglie di mettere in evidenza l’ esimio Pastore? Devo ammettere che mi ha spiazzato: per lui la moltiplicazione dei pani e dei pesci si realizza mediante la distribuzione degli stessi, e non invece come premessa della distribuzione. E’ distribuendoli che i beni si moltiplicano. Probabilmente voleva confortare la sua fede socialista attraverso la sua fede cristiana, e, con un sapiente uso della retorica, c’ è riuscito in pieno! Morale, per parte mia mantengo sull’ episodio specifico l’ interpretazione iniziale, forse più banale ma anche più lineare, d’ altro canto Ricca, grazie ad alla sua ermeneutica creativa, non mancherà di raccogliere attorno a sé un nutrito gruppo di fedeli con cui condividere la sua visione. Visto come è facile che all’ ombra del Vangelo (o dell’ Evangelo, come direbbe Ricca) convivano posizioni a dir poco antitetiche?…]

Dare ordine alle mille possibili ricadute sociali della parola evangelica è impresa disperata. Una lotta contro i mulini a vento. Lasciamo allora che le Chiese diano indicazioni vaghe e che i cristiani, ma anche i cattolici, votino poi secondo coscienza.

Tuttavia, per quanto vaghe siano le indicazioni, oltre una certa soglia sembra difficile spingersi, e in proposito qui mi chiedo se un cattolico sia autorizzato a pensare come un “economista” ortodosso.

[… per “economista” intendo chi studia la società attraverso il metodo dell’ “individualismo metodologico” e vede nel mercato, nonché nella società capitalista, lo strumento principe per diffondere il benessere materiale nel mondo…]

Le ultime uscite di Papa Francesco sono state bollate da Rush Limbaugh come “marxismo puro”. Sarà così? A me pare un’ esagerazione ma vale la pena chiedersi se la Chiesa, oggi sotto la guida di Papa Francesco, potrà mai un giorno convertirsi al capitalismo senza snaturare il suo messaggio al mondo.

Nei punti che seguono rispondo alle puntute obiezioni degli “incompatibilisti”, ovvero di coloro che sulla scorta di Papa Francesco, di Paolo Ricca ma anche della Tradizione più veneranda, non vedono possibile una fusione armonica tra i valori della società capitalista e i valori evangelici.

church money

1) In genere l’ economista cerca la soluzione ottima ai problemi sociali massimizzando l’ utilità degli individui (MaxU) sotto vari vincoli di bilancio. I vincoli esistono sempre perché per lui le risorse materiali sono sempre finite. MaxU non è un modo di procedere che piace molto ai cattolici, viene giudicato troppo incline a privilegiare la realtà materiale. Spesso il cattolico parla in tono di denuncia della “cultura del desiderio”. Ma forse i timori sono esagerati. Penso che il conflitto su questo punto sia solo apparente, in fondo la buona novella cos’ è se non un invito a comportarsi in modo da massimizzare la propria utilità (MaxU) dopo aver ricevuto certe preziose informazioni? Gesù invita il credente a “capitalizzare” le informazioni in suo possesso!  Il cattolico non è uno stoico, per lui la felicità dell’ uomo è centrale, e quindi anche il comportamento razionale che la massimizza. Il cattolico invita alla lungimiranza e a massimizzare la propria felicità in vista di un premio ben preciso: il Paradiso.

2) Papa Francesco – e con lui molti cattolici – fa una concessione sibillina al capitalismo: il sistema gestirebbe al meglio le passioni più basse dell’ uomo: l’ avidità, l’ egoismo, il narcisismo… Ma questo significa anche che il sistema si compromette con la turpitudine di certi sentimenti e che la società capitalistica risulterebbe quindi moralmente corruttiva nella sua essenza. Il capitalismo, cioè, funziona solo perché sfrutta, e magari rinforza, la parte peggiore della nostra persona. Non mi convince, e in merito mi sorge una domanda spontanea da rivolgere a questi cattolici: ma se l’ uomo fosse un essere moralmente perfetto, in che società sarebbe meglio che vivesse? Forse non ancora in una società capitalista? Anzi, anarco-capitalista!

3) Secondo la maggioranza dei cattolici – e l’ unanimità dei lettori di Avvenire – la società capitalista non garantisce la qualità delle relazioni umane. Nella società capitalista ognuno pensa a sé e gli altri sono solo “numeri” o “strumenti” per la ricerca del nostro benessere. Che fine hanno fatto i nobili gesti gratuiti del bel tempo andato? La gratuità, secondo chi la rimpiange, è saldo collante di tutte le comunità degne di questo nome. Ma l’ accusa ha un punto debole, almeno in teoria: cosa impedirebbe infatti che un gesto gratuito si realizzi in un habitat di mercato? Nulla, ed invero ce ne sono molti (es. il volontariato) sebbene non costituiscano la norma. Tra le preferenze degli individui il bisogno di compiere gesti gratuiti puo’ tranquillamente albergare e manifestarsi. Perché allora “incentivarla artificiosamente” con privilegi imposti dall’ alto se esprimere e chiedere gratuità è così intimamente parte della natura umana? In fondo sia la beneficenza che il commercio appartengono alla grande famiglia delle “attività volontarie”, in un certo senso sono attività strettamente imparentate tra loro, molto più di quanto si creda. Entrambe si oppongono, per esempio, all’ attività coercitiva dello stato. La carità ci consente di esprimere una cooperazione molto intensa nei confronti di un numero limitato di soggetti mentre il commercio facilita una cooperazione senz’ altro meno coinvolgente, al punto da sfiorare l’ anonimia, ma sicuramente più estesa. Al netto di queste differenze, che per altro sembrano compensarsi, non si vede perché queste due attività umane non possano convivere. L’ essenza del capitalismo è la tolleranza: vi piace l’ impresa in cui comandano i lavoratori? Costituitela! Vi piace la comune in cui tutto sia di tutti? Fondatela! Volete donare tutto ai poveri? Fatelo! Da sempre la società borghese è  infestata da comizi socialisti, da prediche pauperiste e da brontoloni di ogni ideologia, non riesco davvero ad immaginare altri regimi dove tutto cio’ sia possibile.  Poi c’ è un’ obiezione di tenore pratico: la qualità si puo’ privilegiare solo a danno della quantità. Una società molto coesa è necessariamente una società ristretta. Dirò di più, a volte la coesione (qualità) si realizza attraverso la “creazione di un nemico”, un nemico onnipresente che ci circonda. Coltivare “relazioni privilegiate”, anche quando lo si fa con le migliori intenzioni, porta alla nascita di conventicole dedite all’ esclusione. Non si puo’ essere “qualitativi” con tutti. Il “capitalismo relazionale” – in Italia lo conosciamo bene – si è sempre trasformato in corporativismo. La “cultura del dono”, spiace dirlo, è inevitabilmente contigua alla “cultura della corruzione”. Domanda: dove finisce il dono e inizia la corruzione? Difficile dirlo. Chi non ricorda la scena iniziale de “Il Padrino”?: un tale che si vuole vendicare dei suoi nemici chiede i servigi di Corleone dietro lauto compenso in denaro ma il boss si oppone indignato ad un volgare do ut des, e lo fa pronunciando parole significative: “… cosa hai fatto tu per diventarmi amico?… cosa hai fatto perché io sia il tuo padrino?…”. Corleone rimprovera al postulante di non essersi a tempo debito inserito nella “rete dei doni e dei controdoni” che segna l’ appartenenza familiare, e di voler sostituire questo passo con la mera offerta di corrispettivi specifici a fronte di un servizio.

4) Molti cattolici ritengono che il denaro non possa essere introdotto in talune transazioni, la cosa è ritenuta offensiva. Il fatto è che la mercificazione desacralizza l’ oggetto a cui si rivolge, tanto è vero che Gesù cacciò con ignominia i mercati dal tempio incurante dei servigi che costoro rendevano alla comunità. In ambito sociale, di solito, il valore sacro da non intaccare con lo “sterco del demonio” è la cosiddetta “dignità della persona”. Un piccolo esempio concreto, probabilmente irrilevante nella sostanza ma dalla logica cristallina, puo’ aiutare a sviscerare l’ argomento: molti trovano che assegnare un bene a chi sopporta una coda per averlo puo’ essere più decoroso che non assegnarlo al miglior offerente eliminando le code. Quest’ ultima soluzione è ritenuta umiliante verso chi “non puo’ permetterselo”.  Sono in molti a pensare in questo modo, tanto è vero che esiste il fenomeno delle cosiddette “code prevedibili”.  Pensateci bene, se i prezzi potessero fluttuare a piacimento non esisterebbero “code prevedibili”: chi prevede una coda alza i prezzi evitando lo spiacevole fenomeno, o perlomeno rendendolo imprevedibile. Tuttavia, attraverso le lunghe code ci è concesso di assegnare i beni sulla base della disponibilità di tempo anziché di denaro. Ma si tratta pur sempre di una “disponibilità” materiale, si noti che abbiamo cambiato “moneta” ma non logica. Disoccupati  e pensionati, per esempio, godrebbero di un vantaggio, non tutti possono permettersi il tempo libero che hanno loro. Si passa da una diseguaglianza all’ altra, eppure quest’ ultima diseguaglianza nei trattamenti non viene ritenuta offensiva. Ma perché alcune diseguaglianze ci offendono e altre no? La risposta più semplice è anche la più provocatoria: l’ “offesa” che riceviamo da alcune diseguaglianze è un preludio attraverso cui la nostra mente giustifica a se stessa e agli altri l’ atto di rapina che ci apprestiamo a compiere nei confronti di colui che bolliamo come un “privilegiato”.  Dove un trasferimento forzoso a nostro favore (o comunque a favore di terzi) non è possibile, l’ indignazione provocata dalle diseguaglianze si riduce fino ad apparirci insensata. Noi non troviamo “ingiusto” che una persona sia più intelligente, o più veloce, o più alta, o più volenterosa… probabilmente non lo troviamo ingiusto perché si tratta di beni  “non rapinabili”. Ebbene, se questa ipotesi fosse vera, capiamo bene come i valori in gioco non siano degni di essere difesi nemmeno da un cattolico in lotta contro la “mercificazione” della società.

5) Per molti credenti il mercato non puo’ funzionare. L’ antropologia implicita dell’ economista postula un uomo razionale (homo economicus). L’ antropologia della fede cattolica è ben diversa: la carne è debole, sempre in balia di tentazioni, l’ uomo è dimezzato,  ignorante, non sa scegliere, non riesce a tutelare i suoi interessi, manca delle informazioni e della razionalità sufficiente per farlo. Perciò va guidato da un paternalismo, dolce fin che si vuole ma pur sempre fermo. Chi pensa così, pensa alla dottrina del peccato originale trasposta in ambito economico e sociale. Ora, è vero, l’ uomo sbaglia. Ma la domanda da porsi è diversa: sbaglia in modo sistematico? Ovvero, commette sempre lo stesso genere di errore nonostante i fallimenti ripetuti? Sbaglia sempre nello stesso senso?  Contrariamente a quanto si crede, l’ ipotesi dell’ uomo razionale, e quindi tutta la teoria economica, nonostante la tanta ilarità che scatena nei detrattori, terrebbe anche se l’ intera umanità fosse di fatto estremamente irrazionale. E’ irrilevante che l’ uomo sbagli, l’ importante è che per la legge dei grandi numeri i suoi errori siano distribuiti in tutte le direzioni. A onor del vero bisogna dire che molti studiosi (in particolare gli psicologi evolutivi) credono che le irrazionalità sistematiche dell’ uomo abbondino. Ossia, credono che esistano diversi errori caratteristici: il nostro cervello si è formato per compiere scelte razionali in un ambiente di 50.000 anni fa e oltre, oggi, in un contesto mutato, arranca e compie errori sistematici, almeno se costretto a “pensare veloce”. Ma l’ obiezione del credente, per poter essere presa in considerazione, richiede anche di assumere l’ esistenza di un’ élite illuminata (che non sbaglia) in grado di guidare la massa ignorante. E’ infatti chiaro a tutti che una nave di folli non entra certo in porto solo perché al timone mettiamo un ubriaco, almeno lì occorre un tipo sobrio e affidabile. Ma esiste questa fantomatica élite? Si possono fare alcuni test per ottenere degli indizi in merito. Se, per esempio, ci limitiamo alla realtà economica possediamo un metodo semplice per inferire l’ esistenza dell’ élite che cerchiamo, basta verificare se un piccolo gruppo di persone si arricchisce sfruttando gli errori sistematici della controparte. Evidentemente costoro, non affetti dalle tare tipiche dell’ uomo qualunque, potrebbero trarne un vantaggio materiale. Ma in questo campo l’ élite sapienziale è costituita proprio dagli economisti, che non coincide affatto con l’ élite dei super-ricchi, e nemmeno è costituita da membri particolarmente altruisti che hanno volontariamente rinunciato ad utilizzare un fantomatico “algoritmo dell’ arricchimento”. Quindi la risposta è “no”, un’ élite del genere non esiste nel mondo del mercato. Evidentemente, allora, c’ è qualcosa che non va nell’ obiezione del credente, qualcosa che non quadra e che non ci consente di portarla fino in fondo. E questo anche se la puntelliamo con i bias tanto cari alla psicologia evolutiva. Teniamoci allora alcune buone intuizioni ma rinunciamo ad abbracciare completamente questa visione, che va bene parlando di Rivelazione e Misteri della Fede, va un po’ meno bene se parliamo di realtà sociali.

6) Molti cattolici credono che il paradigma economicista indulga al relativismo. Il “relativismo culturale” è un nemico da sempre nel mirino della Chiesa Cattolica, basti solo ricordare l’ instancabile opera di denuncia di Papa Benedetto XVI. Francamente non sono del tutto convinto che il “relativismo” sia oggi la principale minaccia per la fede dei credenti. Frequentando anche molti atei vedo attecchire il fanatismo come e forse anche più che tra gli spiriti religiosi. Animalisti, ambientalisti, atei, multiculturalisti, sinceri democratici… spesso costoro non “ritengono”, non “ipotizzano”, non “congetturano” ma “credono”, “professano”, “aderiscono” al pari di un crociata medioevale. I loro argomenti impachettati dai media con formule idiomatiche si configurano spesso in dottrina e la pretesa di una diffusione ergaomnes nelle scuole dell’ obbligo non fa che rafforzare l’ impressione iniziale. Quanto all’ economista, lui non si occupa di valori ultraterreni, ma questo non significa che li rinneghi, anzi, significa che sul punto lascia spazio al credente senza frapporre ostacoli di sorta e realizzando una compatibilità indiscutibile. Quanto ai valori terreni, si limita a predisporre un’ arena istituzionale dove i vari concorrenti possano affrontarsi lealmente nel segno della libertà e dei pari diritti.  Non per questo disdegna a prescindere le gerarchie, le diseguaglianze e la presenza di primi e ultimi. Non tutto è uguale per lui, la sua arena fa emergere sempre dei vinti e dei vincitori. La sua arena da sempre la possibilità ai vinti di ribaltare l’ esito qualora quest’ ultimo sia fortuito. E’ la logica della scienza: chi è aperto alla sperimentazione, non per questo mette sullo stesso piano le varie conclusioni sperimentali. Se il cattolico è convinto che taluni valori siano insiti nella natura umana, allora quei valori emergeranno necessariamente in un confronto alla pari. Se la famiglia naturale, per fare un esempio, è davvero una comunità a misura d’ uomo, la comunità per eccellenza, le famiglie prolifereranno in un ambiente dove il loro proliferare non verrà drogato da aiuti artificiosi ma nemmeno ostacolato da barriere altrettanto artificiose.

7) Altre critiche al mercato sono ben rappresentate nelle recenti esternazioni di Papa Francesco, innanzitutto il mercato recherebbe con sé il consumismo, vero cavallo di Troia della secolarizzazione imperante.  Di solito, in questi casi, si replica accennando all’ “eccezionalismo” statunitense: gli Stati Uniti sono il paese dell’ Occidente più “liberista” ma anche quello dove la fede prospera più che altrove. Probabilmente, più che il mercato,  è il welfare state diffuso – un frutto della modernità che ha attecchito male oltreoceano – a fomentare la secolarizzazione. La fede, in fondo, è una forma di assicurazione, se altre forme più profane di assicurazione – come il welfare –  la “spiazzano”, finisce per estinguersi. Ma questa è un’ ottima notizia per i cattolici, poiché ora sanno che combattendo lo stato assistenziale cattureranno due piccioni con una fava: rallenteranno la marcia della secolarizzazione aumentando la ricchezza del paese liberandolo dalla zavorra costosa dei welfare.

8) Altrove Francesco dice che il capitalismo rischia di di produrre e diffondere povertà. Guardando al confronto tra nazioni non si direbbe: quelle in cui il capitalismo è più sviluppato sono anche quelle in cui chi sta in basso se la cava meglio. Nemmeno le analisi temporali confermano l’ affermazione del Papa; guardiamo alla storia delle nazioni: allorché le riforme capitalistiche venivano introdotte, la condizione dei poveri migliorava. Recentemente Cina e India si sono aperte al mercato e l’ Asia ha conosciuto un crollo della povertà senza precedenti. Milioni e milioni di asiatici sono usciti da condizioni di vita miserabili.  Cerchiamo però di capire perché, nonostante i fatti, certe denunce trovano ascolto e consenso.  Ci sono due categorie di poveri: quelli “vicini” e quelli “lontani”. Questi ultimi possono essere “lontani” nel tempo (i poveri delle generazioni future) o nello spazio (i poveri a noi sconosciuti) ma una cosa è certa, sono molto più numerosi dei primi. Chi è sinceramente preoccupato dalla povertà è chiamato a concentrare i propri sforzi sui “poveri lontani”.  E’ pur vero che non essendo “vicini” noi non li vediamo in carne ed ossa, è pur vero che avere a che fare con loro significa avere a che fare con mere astrazioni, ma cio’ non significa che siano meno reali: esistono come e più dei “poveri vicini”. E a noi interessa la realtà, non la concretezza. La Chiesa, con le sue critiche al capitalismo, spesso si è dimostrata miope privilegiando, in tema di povertà, la minoranza in dispregio della maggioranza. E’ ora di cambiare. Forse.

9) Se il cattolico tenesse veramente ai poveri, meglio sarebbe che rimpiazzasse l’ empatia di cui va fiero con la razionalità dell’ economista. In questi ambiti le astrazioni valgono più della volatile sensibilità. L’ azione sistematicamente irrazionale alla lunga miete vittime, e il fatto che queste vittime siano senza volto non attenua le colpe di chi le sacrifica. Se risparmiando oggi le risorse per l’ aiuto a un bisognoso mi consentisse domani di salvarne due, ecco che la ragione mi imporrebbe di  agire in questo senso; questo anche se i “poveri di domani” sono una mera astrazione mentre il “povero d’ oggi”, che trascuro a lascio morire davanti a me, ha un nome, un cognome e un volto. C’ è speranza in una simile conversione all’ “astratto”? Alcuni segnali rincuorano, prendiamo il caso dell’ aborto, i cattolici hanno sempre pensato che l’ uomo iniziasse la sua vita nascendo, successivamente la scienza ci ha spiegato che la vita umana nasce al concepimento. I cattolici hanno di conseguenza deciso di difenderla da quell’ istante, nonostante che il “concepito” sia un soggetto di poche cellule, una presenza talmente astratta che molti lo sentono come fondamentalmente estraneo al mondo degli uomini e non meritevole nemmeno dei diritti fondamentali. Eppure, in questo caso il Cattolico ha privilegiato il cervello e le sue astrazioni alla mera e svincolata sensibilità, c’ è da sperare che privilegi questa opzione anche in altri campi.

10) I poveri, così come i ricchi, poi non sono tutti eguali, bisognerebbe distinguere tra meritevoli e non meritevoli per ordinare la propria azione e renderla più efficace. Il “merito” deve essere un criterio di “carità”, per lo meno finché le nostre possibilità di carità sono limitate, come lo sono in questo mondo. Personalmente non penso che le diseguaglianze dovute al merito siano uno scandalo. Se milioni di persone smaniano per assistere alle schiacciate di Michael Jordan e il campione viene pagato in modo straordinario per esibire il suo talento cristallino, è forse questo uno scandalo che grida vendetta al cielo e che bisogna precipitarsi a correggere in nome di una Santa Giustizia?

11) Il cattolico è comprensibilmente ossessionato dalla difesa degli “ultimi” di cui il Vangelo gli parla in modo accorato quasi ad ogni pagina. Ma come valutare chi sono gli ultimi e come stanno? Innanzitutto la povertà non andrebbe confusa con la diseguaglianza, poiché la lotta contro quest’ ultima giova solo all’ invidioso, ovvero a una categoria di persone “non meritevoli” della tutela evangelica. Meglio, poi, non guardare troppo ai redditi, oggi lo si fa ossessivamente: se un reddito è investito anziché goduto, in che modo pesa sulla condizione effettiva di chi lo detiene? Ora, se anziché le diseguaglianze nel reddito, consideriamo quelle nei consumi, le rimostranze contro il capitalismo si ridimensionano, e si riducono ancor di più se diamo importanza, come ci detta il buon senso, alla qualità dei consumi. Esprimo meglio quest’ ultimo rilievo con un esempio: chi puo’ giusto sfamarsi e vestirsi vive una vita ben diversa da chi puo’ concedersi l’ idromassaggio ogni sera e il giro del mondo ogni mese; tuttavia, chi puo’ giusto concedersi uno Swatch da mettersi al polso, non ha una vita così radicalmente diversa da chi esibisce un Rolex Imperial. Anche se il secondo orologio costa mille volte il primo, entrambi segnano l’ ora alla stessa maniera. Ebbene, si tenga nel dovuto conto che le diseguaglianze prodotte dal capitalismo dei nostri anni sono più vicine al secondo esempio che al primo.

12) Nonostante quanto detto, per molti cattolici le diseguaglianze di reddito restano comunque un male che provoca disgregazione e conflitto sociale. E’ così? Difficile misurare la “disgregazione” sociale, più facile misurare il “conflitto”, magari in termini di sicurezza e criminalità diffusa. Alcune osservazioni mettono in dubbio i timori dei critici. Le diseguaglianze di reddito generano violenza? Il fenomeno della crescente diseguaglianza di reddito nelle società avanzate è iniziato in modo tipico negli USA degli anni 80. Ma quello è anche il periodo in cui la sicurezza personale è cresciuta in modo inequivocabile. New York, tanto per essere chiari, è oggi una delle città più “diseguali”  e al contempo più “sicure” che esistano al mondo. Forse la relazione tra diseguaglianza e sicurezza non è così immediata come molti pensano.

13) La visione critica del cattolico riceve comunque forza dal cosiddetto paradosso di Easterlin: non sembra esservi correlazione tra ricchezza materiale e felicità. Se così fosse a che ci serve aricchirci? Rinunciamo pure al capitalismo, impoveriamoci ma puntiamo sulla felicità imboccando strade alternative. Cominciamo col dire che recentemente l’ economista Justin Wolfer ha però dimostrato che una correlazione tra queste grandezze esiste, sia nei confronti tra stati che all’ interno dei singoli stati, tuttavia resta vero che il legame è più tenue di quel che ci si potrebbe aspettare. Forse la natura grettamente materiale della ricchezza gioca un ruolo, forse i beni effimeri lasciano un vuoto incolmabile dentro di noi. Forse il cattolico ha ragione, una vita relazionale migliore contribuisce in modo cospicuo alla nostra felicità. Eppure il paradosso a me sembra meglio spiegato dalla pervasività dell’ invidia: se mi arricchisco ma si arricchiscono anche tutti coloro che mi stanno intorno e con cui mi confronto, la mia felicità non aumenta come dovrebbe, ovvero, migliora il mio status assoluto ma non quello relativo, ed è proprio lo status relativo ad incidere di più in termini di felicità. Da questo breve resoconto, che mi sembra di buon senso, l’ invidia sembra uscirne come il nemico numero uno. Troviamo una medicina per l’ invidioso e il paradosso cesserà di essere tale. L’ invidia è il grande nemico, purtroppo la Chiesa predilige anteporre altri nemici attardandosi su egoismo e avidità. In alcuni casi addirittura l’ invidioso viene difeso, indicando nella diseguaglianza un fattore che intacca la dignità umana di chi esce umiliato nei confronti. Quando i confronti sono impietosi la Chiesa fa sentire la sua voce trascurando spesso che la condizione del più umile è nel frattempo molto migliorata. Poiché in casi del genere solo l’ invidioso ha motivo di lamentarsi è a lui che di fatto la Chiesa presta il suo megafono.

14) Purtroppo, dalle pagine del Vangelo, la denuncia della “ricchezza” emerge inequivocabile e cio’ pregiudica la riconciliazione tra il cattolico e  l’ economista. In fondo il primo deve attenersi al testo sacro per questioni di fede. Tuttavia, i testi sono sottoposti a continua reinterpretazione da parte della Chiesa vivente ed alcune interpretazioni alternative a quella letterale servono al meglio la causa della riconciliazione. Faccio qualche esempio di interpretazioni alternative. In primo luogo, intendere “ricco” come “prepotente” non sarebbe una cattiva idea. In fondo, nelle “economie di rapina” come quelle antiche, ci si poteva arricchire solo a spese degli altri e la ricchezza spropositata “segnalava” quindi prepotenza. Oggi, “nell’ economia dell’ innovazione”, al contrario, ci si arricchisce beneficiando il prossimo e l’ equivalenza perde di senso, anzi, s’ inverte. Secondariamente, il “ricco” del vangelo potrebbe essere l’ arrogante mentre il “povero”  l’ umile. Se poi umiltà è essenzialmente disinteresse per lo status, allora la condanna dell’ invidioso rimpiazzerebbe la condanna dell’ egoista, con tutti i benefici che si possono evincere dal punto precedente. Ci sono poi le posizioni più radicali. Padre Tosato si spinge oltre e chiede alla Chiesa di ammettere che il messaggio evangelico in tema di povertà è errato, semplicemente errato e da correggere. Almeno se rivolto al mondo moderno. Solo con questa ammissione a monte si puo’ procedere a una sostanziale rettifica. Per Tosato il messaggio “beati i poveri” va trattato alla stregua del messaggio: “la donna stia sottomessa all’ uomo”, entrambi sono oggi inaccettabili e da invertire sulla base dell’ esperienza mondana che la Chiesa ha cumulato. Se riguardo al secondo messaggio una presa di coscienza c’ è stata, sul secondo tarda. Padre Tosato non vede niente di eccezionale in un simile comportamento da parte della Chiesa, la dottrina sociale della Chiesa ha sperimentato di continuo dietrofront del genere, non ci sarebbe niente di nuovo sotto il sole. In passato, per esempio, ogni prestito a interesse era condannato come usura. Ebbene, recentemente, dopo aver preso atto dei benefici che la finanza porta alla causa dei poveri, la Chiesa ammette e benedice la diffusione dell’ attività bancaria. Tosato, in fin dei conti, chiede che si riconosca nella ricerca del profitto una forma di carità cristiana, e a chi gli obietta che non puo’ esservi un bene senza intenzione, risponde con le parole usate da Gesù per elogiare proprio un “bene compiuto senza intenzione”: “quel che avete fatto a loro lo avete fatto a me senza volerlo”. In realtà non c’ è nemmeno bisogno di ricorrere al concetto di “bene non intenzionale” visto che chi ricerca il proprio profitto puo’ benissimo essere conscio di compiere al contempo un’ attività benefica per comunità. Tuttavia, non penso che le posizioni di Tosato possano mai prevalere nella Chiesa di oggi; oggi, con Papa Francesco, siamo agli antipodi. Un messaggio più moderato sarebbe molto più realista, basterebbe sostenere che ogni uomo è tenuto a individuare il proprio talento e investirci su per sfruttarlo al massimo. Penso che il buon senso dei credenti possa condividere almeno questo primo passo, tra l’ altro ispirato proprio alle pagine del Vangelo (parabola dei talenti).

15) Oltre ai passi evangelici, ci sono però i vari documenti della Chiesa, a cominciare dal Catechismo. In essi viene viene delineata una dottrina sociale che sembra incompatibile con forme accentuate di capitalismo. Lo stato è visto come istituzione imprescindibile e il suo intervento invocato di continuo per perseguire i classici obiettivi della Chiesa in difesa dei poveri. Tuttavia, non tutto è perduto, esiste la cosiddetta “mossa del cavallo“. Si tratta del fatto che nei documenti in cui la Chiesa esprime la sua dottrina sociale, è fissato con chiarezza il cosiddetto “principio di sussidiarietà“, ovvero il principio per cui livelli inferiori di governo non possono essere espropriati delle loro competenze se in grado di assolverle. Ovvero, non serve un governo un governo che avochi a sé il compito di distribuire le merci se il mercato adempie spontaneamente a questo compito. Ora, è sufficiente allo studioso dimostrare le potenzialità del mercato per trasferire gran parte dei poteri governativi dalla burocrazia alla società civile. Grazie al “principio di sussidiarietà” e a un attento studio delle evidenze, la dottrina sociale della Chiesa potrebbe aprirsi in modo convinto verso i  principi cardine del capitalismo. In teoria, nulla osta.

16) “Cattolici progressisti” e “cattolici conservatori” si punzecchiano a vicenda accusandosi reciprocamente di “moralismo”. I primi perché, di fronte a poveri ed emarginati, trasformano regolarmente i sentimenti pietistici che provano in decreti legge con annesso prelievo ai danni del contribuente, i secondi perché, come autentici crociati, gradirebbero che il Vaticano detti allo stato le leggi in materia di bioetica. Ma davvero costoro ritengono l’ epiteto “moralista” come squalificante per un politico? Al di là del merito delle singole questioni, per me sarebbe una buona notizia. Vogliamo prendere sul serio questa accusa? Se lo vogliamo, allora la cosa diverrebbe un ‘ occasione per avvicinare le posizioni del credente a quelle dell’ economista. Costui non rinnega l’ esistenza di principi etici ma considera in modo amorale le regole sociali, le considera alla stregua di una “regole del gioco” atte a facilitare l’ azione di tutti i cittadini. E’ una concezione ludica della legalità. Facciamo anche qui un esempio per uscire dalla teoria e capirsi meglio: se l’ omicidio è interdetto dai codici, non lo è per un principio morale che ci vieta di uccidere nostro fratello ma perché l’ obbiettivo dell’ omicida (evidentemente non perseguibile attraverso lo scambio volontario) rappresenta un costo sociale se realizzato e non è quindi meritevole di tutela. Cio’ non significa che possa esistere una regola morale che mi impedisce di uccidere il fratello innocente, bensì che regola morale e regola civile non coincidono. Se le cose stanno così, non ha più nessun senso chiedere che un precetto morale, anche se universalmente riconosciuto, sia riconosciuto anche dalla legge civile.

17) L’ influsso dell’ economia (e quindi del mercato) è giudicato da molti cattolici come “moralmente corruttivo”. Perché? Forse perché l’ economia giudica i nostri atti a prescindere dalle intenzioni con conclusioni sorprendenti. Stando a questo metro, molti vizi privati si rivelano a sorpresa virtù pubbliche, così come molte virtù private si rivelano in realtà dei vizi una volta che esercitano il loro influsso sulla società intera. Per quanto tutto cio’ sia disturbante, il cattolico, anziché indignarsi, dovrebbe ponderare questa lezione e lasciarsi convincere che in molti casi le “conseguenze” pesano più delle “intenzioni”. La sensibilità alle conseguenze ridurrà le distanze tra economista e cattolico.

18) D’ altronde, il cattolico puo’ aiutare l’ economista a non scivolare nella riva insidiosa e sempre in agguato dell’ utilitarismo. Facciamo qualche esempio: l’ economista potrà ancora sorridere vedendo come il cattolico fatichi nell’ opporre argomenti validi alla – scelgo un tema particolarmente scandaloso per la ripugnanza che suscita – compravendita ordinata degli organi umani, potrà anche “divertirsi” nell’ accusare il proibizionismo del rivale di mietere vittime, astratte sì, ma anche maledettamente reali… Tuttavia, quando qualcuno proporrà – faccio un altro esempio – di sterilizzare – conti alla mano – i membri dei gruppi sociali più “problematici”, allora anche all’ economista più avveduto tornerà comoda la millenaria diga etica messa a punto dal cattolico. Anche lui, mettendo da parte le sue “quantificazioni”, la utilizzerà contro una simile scelleratezza. Diciamo allora che rinforzare questa diga sul pilone della libertà individuale è una soluzione di compromesso che consentirebbe la fruttuosa unione del cattolico e dell’ economista.

19) Il connubio tra il cattolico e l’ economista consentirebbe al primo di avanzare pretese su cio’ che il gergo di Papa Francesco designa come il “centro” del mondo moderno, poiché oggi l’ economista presidia proprio quella parte di mondo. Per “centro” intendo appunto la frontiera più avanzata dell’ umanità, quell’ avanguardia che procede su territori che domani verranno presumibilmente percorsi anche dal resto del mondo. C’ è da chiedersi se la Chiesa conservi ancora l’ ambizione di far sentire la propria voce nel dibattito tra le élites.  Con Papa Ratzinger l’ impresa, sebbene perseguita per altre vie, sembrava comunque all’ ordine del giorno. Ci si prefiggeva una nuova ambiziosa evangelizzazione dei continenti più secolarizzati – che sono anche i più avanzati – in particolare dell’ Europa. Benedetto esibiva la sua tempra di professore nelle Università più prestigiose dell’ Occidente facendosi udire dalle intelligenze più influenti. Ma con Papa Francesco l’ obbiettivo sembra mutato e nel mirino ci sono ora le cosiddette “periferie” del mondo. Dobbiamo auspicare venga ripristinata la vecchia rotta? Dipende. Forse bisogna domandarsi “chi influenza chi” per capire dove stia l’ innesco migliore per l’ evangelizzazione. E’ il “centro” ad influenzare la “periferia” o è la “periferia” che trascina il “centro” verso la sua sorte? Forse la “periferia” è più fertile e più irruenta nel riprodursi ma non c’ è dubbio che il “centro” catalizzi l’ emulazione della periferia. La mia umile opinione: persa la battaglia per il “centro”, persa la guerra. Comunque, diversi studi ci dicono che anche nelle democrazie, dove in teoria la maggioranza decide, ci si conforma per lo più alle opinioni delle élite. E parlo di “opinioni”, non di “interessi”, le due cose, diversamente da come pensa l’ ingenuo, sono scollegate. L’ attivismo ideologico quindi è tutt’ altro che vano, purché venga centrato sulle giovani élite. Utilizzando il nostro gergo diremmo, “purché sia mirato sul Centro”.

20) Il cattolico depreca l’ individualismo metodologico tento caro all’ economista: il soggetto, suggerisce la Chiesa, è una Persona, non un Individuo atomistico! Ma che differenza c’ è tra i due concetti? Per capirlo bisogna fare ancora riferimento al ruolo giocato dalle “relazioni umane”: la Persona è il soggetto che si forgia nella Relazione mentre l’ Individuo è il soggetto che forgia Relazioni. Entrambe le visioni possiedono un seme di verità ma quale prevale? E’ nato prima l’ uovo o la gallina? Un buon modo per stabilirlo consiste nel far ricorso al concetto di Responsabilità: chi è il responsabile ultimo dell’ azione umana? Il soggetto o la struttura relazionale in cui è avviluppato fin da bambino? Ora, poiché il cattolico crede nel Giudizio Universale, sa che il soggetto verrà giudicato dal Signore alla fine dei tempi e sentenziato per l’ Inferno o il Paradiso. Nota bene che non verranno condannate (o premiate) Famiglie o Comunità, verranno condannati (o premiati) i singoli. Viene allora naturale pensare al soggetto come ad una realtà “responsabile” in sé, per quanto condizionata dal viluppo relazionale in cui è immerso. Perché mai, infatti, dovremmo giudicare chi ha un comportamento predeterminato dall’ esterno in partenza? Ma se il soggetto è responsabile allora è fondamentalmente Individuo. Conclusione: così come dobbiamo riconoscere che il concetto di Persona ci ha salvaguardato nella storia da forme di collettivismo estremamente minacciose, dobbiamo anche riconoscere che in via teorica il concetto di Individuo è più coerente con l’ assetto di fondo della dottrina.

21) La “libertà” è l’ architrave del pensiero economico come di quello cattolico. Eppure, anche se la parola è la stessa, il concetto sottostante è ben diverso. L’ economista per “libertà” intende “libertà di scelta”, il cattolico ha in mente invece una qualche forma di “libertà esistenziale”. Nel primo caso la libertà puo’ essere anche onerosa visto che implica responsabilità. Si puo’ essere “liberi di scegliere” e al contempo scegliere male e pagarne lo scotto. Tutti come la responsabilità sia anche un fardello, essere liberi non è sempre gradito, di fatto. Nel secondo caso, invece, la “libertà” autentica è per definizione fonte di felicità e di realizzazione personale a prescindere. Per il cattolico, la libertà è  sempre un valore positivo, e per mantenerlo tale si teorizza che chi “sceglie male”, automaticamente, perda la sua libertà a causa di inganni demoniaci; chi sceglie male rientra nella cerchia degli “obnubilati” destinati ad una sottile forma di schiavitù. Stando così le cose è ovvio che l’ uomo libero sia sempre felice e realizzato. Modesta proposta: perché il cattolico non rinuncia ad un concetto tanto contorto e, nei suoi risvolti tautologici, anche abbastanza inutile? Secondo me vale davvero la pena di adottare il primo concetto di libertà in favore della chiarezza, della linearità espositiva nonché del buon senso. Penso che il messaggio cattolico possa essere esposto in modo chiaro anche aggirando concetti problematici come quello di “libertà”, per quanto provenienti da una tradizione nobile. Non fissiamoci su un feticismo dei termini che la controparte giudica sospetto.

22) Si dice che poiché il cattolico si occupa per lo più di “beni infiniti” come lo “spirito” o l’ “anima”, per questo motivo è così restio a “quantificare”. Ogni “quantificazione” gli appare come una “mercificazione” e senza dubbio, almeno nell’ ambito dei beni che più toccano i suoi interessi, ha dei validi motivi per pensarlo. Senonché, quasi come vittima di un riflesso condizionato, mantiene questa abitudine anche quando si cimenta nel mondo dei beni finiti; non “quantifica” nemmeno nel mondo dei beni “quantificabili”, non rende “verificabile” la sua visione nemmeno quando formula ipotesi osservabili. Il fatto è che in questi casi, non si possono del tutto ignorare le “conseguenze” di quanto si predica, e sarebbe miope non tentare di misurarle attraverso i più avanzati strumenti econometrici. Ancora più miope sarebbe insistere nonostante le smentite che derivano dall’ evidenza portata alla luce da tali modelli. Lo so che si tratta di strumenti imperfetti ma come si dice dalle mie parti “piuttost che niènt le mei piuttost”. La misurazione statistica comporta un continuo aggiornamento delle proprie credenze, una provvisorietà nelle conclusioni, una prontezza ad invertire la rotta laddove le credenze si erano stabilizzate. Scomodo? Mi chiedo piuttosto se si puo’ davvero pensare di intervenire nel dibattito delle scienze sociali sprovvisti di una simile flessibilità. Stabilire una verità sociale non è come stabilire la verginità di Maria: nel secondo caso richiedere una verificabilità è folle, nel primo invece è doveroso. In ambito sociale non ci sono dogmi ma solo fenomeni da verificare alla bell’ e meglio stando pronti a trarne le conseguenze tornando, se il caso, sui propri passi. Quando questa “onestà intellettuale” sarà abbracciata senza remore l’ economista e il cattolico avranno fatto un passo decisivo l’ uno verso l’ altro.

23) Ma anche l’ economista ha qualcosa da imparare dal credente e dalla sua riflessione sui “beni infiniti”. Oggi, infatti, anche  molti beni materiali sono diventati “infiniti”. Se programmo un buon software posso poi riprodurlo all’ infinito a costo zero. Se realizzo un solo e-book posso poi moltiplicarlo all’ infinito a costo zero. Tutto cio’ ha delle conseguenze: se il mio software è anche solo leggermente migliore delle alternative, mi accaparro l’ intero mercato, proprio perché stendere la mia produzione a livello cittadino o mondiale mi è indifferente dal punto di vista dei costi. Si tratta di giochini cosiddetti “winner take all”. Se Facebook è anche solo di poco migliore di MySpace, Facebook si prende tutto e MySpace sparisce. Anche grazie a queste dinamiche le ricchezze si concentrano ed emergono pochi super-ricchi dal patrimonio quasi infinito. Il credente ci insegna che quando disponiamo di beni infiniti cio’ che manca, cio’ che scarseggia è il senso, ovvero cio’ che ci consente di trasformare la ricchezza in felicità e realizzazione personale. Noi non viviamo per accumulare patrimoni ma per trasformarli in felicità personale. Ecco allora che intorno al super-ricco si forma una corte di gente che “offre” senso: il cuoco con i suoi piatti unici al mondo, l’ esperto dei vini con i suoi consigli sofisticati, il monaco buddista con la sua filosofia immaginifica, il personal trainer con le idee per una forma perfetta, l’ artista con le sue trasgressioni uniche… Il futuro è di chi sa trasformare la ricchezza in senso e vende i suoi consigli e la sua arte ai super-ricchi. A volte il senso ha bisogno del sacro per emergere, cosicché l’ opposizione del credente alla mercificazione che abbiamo cacciato dalla porta, potrebbe rientrare dalla finestra.

24) Il concetto di “natura” costituisce l’ ennesimo punto di frizione tra credente ed economista. Il primo imputa al secondo di dare troppa importanza ai patti e alle convenzioni trascurando le leggi di natura, in particolare la natura umana. L’ accusa puo’ essere fondata, ma solo in parte. Considerate un mercato e considerate il caso di Michael Jordan. Jordan ha un gran talento cestistico ma ha anche una passioncella per il golf. La sua natura gli imporrebbe di dedicarsi al basket ma le sue voglie lo spingono verso il golf. Se caliamo Jordan in un mercato assistiamo a come mille incentivi intervengano affinché lui si dedichi alla pallacanestro, ovvero allo sport più conforme alla sua natura. Dedicandosi al basket potrà diventare milionario mentre per dedicarsi al golf sarà bene si procuri un buon lavoro alternativo.  E’ esagerato allora sostenere che l’ economista trascura del tutto la natura degli uomini, l’ ambiente che l’ economista propone per la convivenza umana incentiva i partecipanti a seguire la loro natura, chi non lo fa paga.

25) Don Giussani enfatizza quanto sia utopico approfondire tutte le opzioni di fede per sceglier poi la migliore, meglio sarebbe affidarsi alla tradizione, approfondire e vivere fino in fondo cio’ che la tradizione ci propone e infine verificare se questa esperienza è conforme alla nostra natura. Gli economisti adottano una teoria della decisione razionale alternativa: quand’ anche approfondire tutte le opzioni fosse troppo costoso (utopico), si adotti un criterio probabilistico. Così come “tasselliamo” i meloni, dovremmo saggiare le via alternative che ci vengono proposte prima di imboccarne una. Ma il “criterio probabilistico” è superiore al “criterio esperienziale” favorito da don Giussani e dai cattolici in generale? La presenza di  un “effetto dotazione”, di cui ci parlano gli psicologi, sembrerebbe deporre contro il criterio esperienziale. Ossia, se noi investiamo gran parte del nostro capitale umano su un’ opzione, difficilmente la giudicheremo poi con la dovuta ponderazione, siamo troppo coinvolti per avere il necessario distacco, tenderemo inevitabilmente a giudicarla con favore rispetto alle opzioni che abbiamo tralasciato e su cui nulla abbiamo investito. I giudizi a posteriori sono sempre un po’ sospetti.

26) Per molti cattolici è lo stesso lessico teologico – nonché l’ apparato concettuale sottostante – a segnare uno iato incolmabile tra una sensibilità religiosa e una sensibilità moderna. Bisogna ammettere che nozioni quali quella di “sacro” sembra escludere ogni commercializzazione, anche la ripetuta condanna contro l’ avidità non sembra offrire spiragli. Tuttavia, non è nemmeno vero che ogni forma di comunicazione debba essere esclusa. Ecco una tabella con alcuni spunti per una riconciliazione lessicale:

a) Giudizio universale – La responsabilità individuale sta alla base dell’ individualismo moderno.

b) Provvidenza – L’ ordine spontaneo, ricercato dalla modernità, emerge naturalmente senza un responsabile.

c) Peccato originale – Viviamo in un mondo con risorse limitate, è l’ assunto della modernità.

d) Albero della conoscenza… – L’ abuso della conoscenza è l’ errore più grave anche nel mondo moderno

e) Poveri di spirito: la fiducia, merce rara di cui la modernità è assetata, allarga i mercati e decuplica la ricchezza.

ebis) Poveri di spirito – La presunzione per cui “cio’ che appare è” vale sempre nella modernità.

f) Paradiso/Inferno – La responsabilità è centrale anche nella società moderna.

g) Apocalissi – La logica utilitaria, tipica della modernità, è onnipresente nelle scritture.

h) Anima – La modernità non puo’ prescindere da identità e continuità della persona e delle sue responsabilità

i) Trinità – Nella modernità gli sdoppiamenti di personalità sono comuni.

l) Spirito – Il determinismo materialista non si coniuga bene con la responsabilità personale, concetto chiave della modernità

m) A immagine di Dio – La capacità di scegliere autonomamente è concetto moderno

n) Il dominio sul creato – La concezione proprietaria è tipica delle civiltà più avanzate.

o) Dio creatore – : C’ è un’ eco dell’ imprenditore innovatore.

p) Perdono – Una certa tolleranza informa le società più dinamiche; l’ innovazione è tutelata e si perdona molto a chi intraprende, spesso a scapito di chi campa al traino.

q) Gesù e la legge ebraica – Legalità e legittimità sono distinzioni tipiche della modernità

r) Santi – La funzione trainante delle élites conta molto anche nelle società moderne.

s) Vocazione – Valorizzare il proprio talento è un imperativo della modernità.

t) I pani e i pesci – Moltiplicare i beni per distribuirli è l’ obbiettivo di molte società moderne.

u) Preghiera e obbedienza – Sono forme di passività molto richieste nelle società dove domina incontrastato lo “specialista” (divisione del lavoro) e solo a lui è demandata l’ azione.

v) Pace – Niente pace, niente commerci: dove passano le armi non passano le merci.

z) Sacra famiglia – La famiglia monogamica “tradizionale” nasce con la proprietà privata, favorisce da sempre l’ accumulo di capitale ed è quindi funzionale ad ogni forma di capitalismo.

aa) Sacro – Premesso che la religione cristiana ha ridotto al minimo il ruolo del “sacro” nel vivere sociale, a volte scordiamo che anche la modernità ammette l’ esistenza di un nucleo oggettivo di realtà  “non negoziabile”. L’ equivoco alligna in chi mescola modernità e post-modernità, quest’ ultima propone una narrazione alquanto seduttiva ma, alla resa dei conti, presa sul serio solo da pochi intellettuali rinchiusi nelle loro accademie.

bb) Legge naturale – Come non vedere un’ assonanza con l’ ordine spontaneo tanto caro ai liberali?

Continua a questo link: http://broncobilli.blogspot.it/2014/07/lessico-cristiano.html

27) Secondo molti cattolici l’ efficientismo della società capitalista ha uno sbocco inevitabile: l’ alienazione dell’ uomo. Produrre diventa l’ imperativo e si perde di vista che si produce al solo scopo di consumare. Invertire i mezzi con i fini è prodromico al crescente straniamento così tipico dell’ uomo moderno. Ora, senz’ altro la società capitalistica pone grande enfasi sull’ efficienza e la globalizzazione ha ulteriormente rafforzato questo aspetto, tuttavia sarebbe caricaturale pensare all’ efficienza come obbiettivo unico. Mi spiego meglio con un esempio, chiunque abbia lavorato in una multinazionale – o l’ abbia anche solo vista dall’ esterno – conosce bene la montagna di inefficienza che caratterizza queste organizzazioni. Spesso i provvedimenti di taglio dei costi vengono presi giusto quando la situazione è insostenibile, quando cioè le pressioni concorrenziali diventano intollerabili. Ma se quei provvedimenti esistono, perché mai non sono stati presi prima? In queste aziende oltre 1/3 del personale è sostituibile con profitto, eppure si preferisce non toccarlo. Perché? Gli “yes man” del boss – chiaro simbolo d’ inefficienza – abbondano. Perché? Non esiste quasi mai un legame tra i compensi dell’ AD e i profitti societari. Perché? I meeting e i briefing inutili si susseguono, se a cio’ aggiungiamo lo scarso uso delle teleconferenze, viene da chiedersi il perché. In queste riunioni si formulano spesso delle previsioni sul futuro, eppure non vengono meticolosamente registrate e riscontrate come ci si aspetterebbe in un’ organizzazione dedita a misurare l’ efficienza e a premiarla. Perché? E’ noto poi che il  boss sopravvaluta gli uomini che ha assunto personalmente sebbene questa preferenza sia nociva per l’ organizzazione. Perché allora lo fa? Nelle assunzioni, le credenziali e i titoli prevalgono regolarmente sempre rispetto alla misurazione delle capacità effettive. Perché? E si potrebbe continuare. Evidentemente altri interessi oltre alla massimizzazione del profitto sono in gioco e pesano. In conclusione, la società capitalistica è un’ organizzazione complessa in cui agiscono molte organizzazioni complesse i cui obbiettivi non sono certo riducibili all’ efficientismo integrale.

28) Molti cattolici simpatizzano con la cosiddetta “legge di Sombard” per la quale il capitalismo, a causa del suo eccessivo dinamismo, diventa un processo innaturale che sgancia l’ economia da ogni ordine morale. L’ uomo non è fatto per la centrifuga impazzita dell’ turbocapitalismo. Ebbene, la critica contiene un nucleo di verità, bisogna prenderla sul serio; purtroppo tali critici sbandano allorché pensano di porre rimedio abbracciando il mito delle “riforme”, ovvero dell’ ingegneria sociale. Sarebbe come combattere il male con il male, sarebbe come rettificare un sistema che ha il difetto di essere costruito a tavolino con una riparazione per l’ appunto a tavolino. Meglio allora l’ approccio “conservatore”, meglio “rallentare” il capitalismo con le inefficienze sue proprie, ovvero le inefficienze che derivano da un “eccesso” di libertà, come le inefficienze da maggiori concessioni all’ autogoverno, da maggiori enfasi sulle diversità, dalla libertà di battere moneta,  ovvero, come abbiamo visto prima, dalla diffidenza per un welfare costruito centralmente. Ma gli esempi si possono moltiplicare.

AGGIUNTE POSTUME

ADD1: Spesso il cattolico s’ improvvisa economista, non è una scelta rassicurante. In questi casi il suo dilettantismo emerge in modo imbarazzante. Magari le sue intenzioni sono buone e saldamente ancorate ad un’ etica plausibile, senonché, forse perché vittima di un complesso d’ inferiorità culturale, ritiene di rinforzare i suoi argomenti attingendo all’ economia orecchiata. Pensa così di essere più convincente magari lusingandosi degli applausi dei già convinti. Esempio:

http://hateandanger.files.wordpress.com/2013/11/pope-francis-some-people-continue.png

Ecco allora come cambia la musica se gli stessi temi sono affrontati professionalmente: http://www.tsowell.com/images/Hoover%20Proof.pdf

ADD2. 29) La difesa di molte tesi sostenute dalla Chiesa sarebbe più robusta se articolata con gl argomenti dell’ economia tradizionali. Prendiamo il caso della scuola libera. E’ lecita una scuola privata? Molti avversari della Chiesa sostengono di no perché cio’ frammenterebbe l’ etica comune. La premessa a questo argomento è che esista un’ etica comune e che sia posseduta dallo stato. Se invece il valore supremo fosse la libertà individuale, l’ etica ottimale sarebbe oggetto di una ricerca che come tutte le ricerche è meglio condotta decentrando le decisioni e quindi anche le istituzioni. la scuola privata tanto cara ai cattolici verrebbe difesa in modo efficiente e moderno. Purtroppo la Chiesa, che in altri campi si posiziona in modo paternalistico e centralista, non è nelle condizioni più adatte per sostenere un argomento vincente di questo tipo.

ADD3. Libertà educativa, libertà di discriminare gli omosessuali, libertà di non praticare aborti… Ormai un cattolicesimo sulla difensiva si limita a lotte incentrate sulla libertà ad esistere: primo sopravvivere. Da qui una possibilità di alleanza oggettiva con libertari ed economisti, i loro argomenti laici sono lo scongiuro più potente contro le crociate laiciste.

ADD4. In un paese il miglior modo per aiutare i poveri consiste nell’ istituire un reddito di cittadinanza, magari attraverso una negative income tax. La soluzione però non è esente da pecche poiché scoraggia il lavoro. Non solo, scoraggia anche la religiosità (l’ assicurazione del reddito minimo spiazza l’ assicurazione religiosa). Laboriosità, capacità di affrontare il rischio e religiosità spesso vanno di pari passo, ecco allora profilarsi una serie di battaglie dove cattolici ed economisti possono fare fronte comune.

ADD5. Il matrimonio tra credente ed economista potrebbe celebrarsi in nome della laicità. Ma come far emergere un atteggiamento autenticamente laico?  Il miglior modo consiste nel distinguere l’ etica della virtù dall’ etica deontologica. Bisognerebbe coltivarle entrambe. Solo la prima mette a rischio la laicità. Solo la seconda ci impoverisce e si rischia la deriva relativista.

ADD6. A volte sembra che gli uomini di Chiesa non sappiano di cosa parlano quando parlano di economia cercando di stare sul generico. Ecco la reazione tipica di un economista ascoltando le parole “misteriose e ambigue” di Papa Francesco: “… non penso proprio che ci sia un “mistero” di papa Francesco in materia economica. Penso piuttosto che lui di queste cose non abbia la più pallida idea. La sua mancanza di coerenza è radicata nel suo essere latinoamericano. Egli è come tanti demagoghi del Sud e del Centro America. Semplicemente non ha una coerente comprensione dell’economia.
La sua personalità lo spinge a fare scena, ad esempio con le sue ridicole auto utilitarie, e la gente cade nell’inganno, perché le masse si fanno ingannare dai demagoghi. Sul volo di ritorno dalla Corea il papa ha rivelato di non aver mai fatto una vacanza in venticinque anni. Io non sono per niente un tifoso degli Stati Uniti, tanto meno delle pazzie della loro estrema destra. Ma lui semplicemente ha poca esperienza pratica di come funzionano o non funzionano le economie al di fuori dell’America Latina. E non c’è nessun modello di tale “funzionamento” in America Latina, dove il suo paese natale barcolla da una confusione all’altra. Se si vuole capire chi è Bergoglio nelle questioni dell’economia e della società, non occorre guardare a qualche teoria economica, ma alla sua cultura e alla sua personalità. È l’analisi psicologica di Bergoglio che solleverà il coperchio sulla sua condotta. Questo è il mio punto di vista. E, per inciso, nel mio passato sono stato professore di economia. Non dubito che lui abbia una metodologia teologica. Ma non ne ha una economica. E nemmeno l’hanno avuta, in questa materia, Ratzinger e Wojtyla. I testi papali su economia e politica sociale sono in gran parte dilettanteschi. Non l’ho mai detto in pubblico, ma penso che la dottrina sociale della Chiesa sia dilettantesca perché è ideologica, vale a dire non-empirica. Sono testi scritti da uomini che non otterrebbero mai successo nel campo pratico, e quindi non sono in grado di influenzare strategicamente quel campo da una prospettiva religiosa. Ecco perché non sono realizzativi: perché optano per una recita semplicistica di aforismi che forse fanno colpo sulle masse, ma non forniscono nessun punto d’appoggio per cambiare le circostanze concrete della vita. Sono di fatto privi d’efficacia per i poveri.

ADD7.  Le novità introdotte dal pontificato di Papa Francesco nella dottrina sociale sono molte e nel loro ultimo libro Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi hanno tentato una sistematizzazione, ecco la loro tesi: non che Francesco si disinteressi della vita e della famiglia e ai valori non-negoziabili. Tuttavia cambia, per così dire, l’ordine dei fattori. Francesco pensa che all’origine delle ideologie ostili all’uomo ci sia il turbo-capitalismo. Papa Bergoglio pensa cioè che il capitalismo regga bene chi critica gli effetti della sua azione negativa nella storia – gli attacchi alla vita e alla famiglia – senza andare alla causa prima, ovvero all’«imperialismo del denaro». Addirittura i poteri forti svierebbero l’ attenzione della Chiesa indirizzandola verso questioni come l’aborto o il «matrimonio» omosessuale costringendola a mettere in secondo piano la critica del dominio dell’ economia.

Ma il mercato corrode davvero il carattere morale di chi vi partecipa?

Di certo la libera economia è anche un potente strumento per chi vuol fare bene: la filantropia prospera nelle società di mercato, mai tanta ricchezza personale è stata devoluta verso cause umanitaria.

In genere il mercato è un amplificatore che estende i benefici delle virtù come i guai dei vizi, cio’ non toglie che la sua azione possa essere meno neutra di quanto crediamo.

Il giudizio morale potrebbe essere assegnato guardando alle conseguenza. Cosa succede quando la società di mercato rimpiazza quella arcaica?  Guardiamo ad alcuni ambiti specifici:

  1. Povertà
  2. Bambini (lavoro minorile, frequenza scolastica)
  3. Parità di genere
  4. Ambiente
  5. Violenze
Sembra che nel complesso il mercato funzioni, facciano meglio ovunque: i poveri di quelle società sono molto meno poveri degli altri, il lavoro minorile non è aumenta, contrariamente alla frequenza scolastica; la parità di genere fa passi avanti, persino l’ ambiente in alcuni casi migliora. Quanto alla violenza, una società di mercato non è nemmeno pensabile senza la pace.

Capisco che però le conseguenze, per quanto positive, non ci dicano molto circa un miglioramento interiore degli individui.

Chiediamoci allora cosa serva per arricchirsi nelle società di mercato:

  1. capacità di collaborare con l’ altro
  2. capacità di comunicare con l’ altro.

E’ vero, si tratta forse di una cooperatività con secondi fini ma è pur sempre una cooperazione volontaria. Anche la  comunicazione è piuttosto ambigua (vedi pubblicità) ma se l’ ambiguità prevalesse l’ insuccesso sarebbe alla lunga garantito.

Altre virtù indispensabili alla società di mercato:

  1. responsabilità
  2. fiducia
  3. rispetto

Responsabilità nell’ assumere impegni, fiducia verso la controparte e rispetto della proprietà altrui. Senza questi tre fattori chiave il mercato deperisce. Qua e là ci saranno defezioni ma se queste virtù non vengono sistematicamente esercitate difficilmente una società di mercato sta in piedi.

Naturalmente il mercato funziona anche e soprattutto grazie all’ egoismo delle persone, ma in una certa misura questo egoismo è fisiologico e trova nel mercato un suo sbocco provvidenziale e non-violento, il realismo non puo’ essere un difetto. Cio’ non toglie il rischio di patologie:

  1. avidità
  2. invidia.

La prima è un vizio distruttivo, porta alla rovina, e non sono certo i meccanismi di mercato a salvarti, anzi; la seconda è lusingata e compresa soprattutto da chi attacca il mercato appellandosi alle diseguaglianze (e quindi all’ invidia sociale).

Il mercato distrugge la relazione più profonda tra gli uomini? Forse una certa anonimia è deleteria ma l’ alternativa non sembra promettente: le società fondate sulla cosiddetta “relazione personale” sembrano soggette ad inconvenienti non da poco:

  1. corruzione
  2. mafia
  3. clan
  4. raccomandazioni

Il mercato deteriora la famiglia?

In parte la tesi non è insensata: le accresciute possibilità di lavoro ci fanno trascorrere più tempo fuori dal nucleo famigliare. D’ altro canto non esiste tanto tempo libero come nelle società di mercato.

Anche il consumismo è una minaccia: i capricci si moltiplicano e i genitori sono in difficoltà. Non penso però che temprarsi sia così difficile, al contrario puo’ essere un’ occasione di educazione. Inoltre, avere di fronte a se delle libere scelte ci aiuta nella nostra personale realizzazione e nella costruzione della personalità.

Tuttavia è ben vero che le società moderne hanno in gran parte spiazzato la famiglia sottraendole dei compiti da sempre a suo appannaggio. Pensiamo solo al rapporto padre figli e a come questi ultimi avessero modo di compensare gli aiuti ricevuti sobbarcandosi la vecchiaia dei genitori: oggi pensano a tutto i servizi sociali.

Qui però bisogna rendersi conto che l’ azione distruttiva non è tanto del mercato quanto di un welfare state oggi sempre più tentacolare.

Conclusioni personali: le società di mercato si presentano all’ apparenza meno violente e più sensibili, da qui a dire che però i soggetti che le abitano siano eticamente migliori dei loro padri ce ne corre.

Io vedo piuttosto all’ opera un processo di questo tipo: la società aperta (o di mercato) sollecita le nostre intelligenze e le fa fiorire, attraverso il loro esercizio noi riusciamo a minimizzare i conflitti inutili, il che ci dà una parvenza di moralità superiore. Tuttavia, una cosa è non confliggere perché non conviene e un’ altra è non confliggere perché sentiamo nel nostro cuore una condanna esplicita della violenza.

E’ chiaro quindi che se le cose stanno in questi termini, non è possibile affermare con certezza se taluni risultati incoraggianti si accompagnino poi ad un reale miglioramento etico interiore degli uomini. In merito ho i miei dubbi, detto cio’ preferisco quindi astenermi dal trarre conclusioni avventate in merito e, contemporaneamente, non prendere troppo sul serio i teorici della degenerazione etica dovuta al mercato.

19 pensieri su “Economisti o credenti?”

  1. Un paio di settimane fa ho avuto una lunga ed interessantissima conversazione con una russa di San Pietroburgo. Una persona estremamente intelligente e di un livello un po’ diverso dalle ex-URSS che tipicamente incontriamo a fare le badanti dalle nostre parti.
    Questa rimpiange molte cose dell’URSS, ed è molto critica nei confronti dell’occidente. Mi ha sorpreso il livello di analisi che c’era nelle sue riflessioni, informate e non solo plagiate dall’indottrinamento del regime. Non sto a riassumere tutto. Sul tema del tuo post cito solo questi punti:
    1) Secondo lei in occidente siamo solo interessati al denaro, trascurando l’essere per concentrarci sull’avere. Ci indaffariamo tutta la vita per accumulare e non curiamo granché la nostra umanità.
    2) (molto legato al primo) Il nostro individualismo esasperato ci porta ad un egoismo che ci fa trascurare gli altri. Mi citava l’esempio di suoi zii cui lo stato aveva assegnato un appartamento. Sono andati all’ufficio per segnalare che quell’appartamento era troppo grande per loro che erano solo in due, meglio darlo ad una coppia giovane che avrebbe potuto avere figli.
    Ora, benché ovviamente la realtà non sia fatta solo di bianco e di nero, devo dire che secondo me queste due critiche sono centrate e in questi comportamenti il mondo occidentale è lontano anni luce dal messaggio evangelico. L’economista tende ad identificare il “benessere” (bene primario da ottimizzare) con la disponibilità di beni materiali. Tu ammorbidisci la polpetta dicendo che la ricchezza non è un bene in sé, ma si traduce in felicità, e questa è il vero bene. Onestamente io, cresciuto con la stessa impostazione mentale, non posso darti torto. Farei fatica a rinunciare a molte possibilità “buone” che la ricchezza mi offre (viaggi, cultura, cibo, sport, relax, hobby, opportunità da dare ai figli, …). Però, avendo la possibilità e la passione del viaggiare, non posso esimermi dal constatare che la felicità e la solidità delle relazioni umane siano spesso molto più tangibili in società per noi intollerabilmente povere di quanto non lo siano in quelle più ricche.

  2. forse è un problema di opzioni: più aumentano, meno investi sul (poco o tanto) che hai, anche in termini di relazioni umane, familiari eccetera. Vivi proiettato verso quel qualcosina di diverso o in più a cui pensi di potere realisticamente e legittimamente aspirare. A questo si aggiunge la sensazione/istruzione diffusa che quando qualcosa non funziona è meglio buttarlo che ripararlo: troverai lo stesso articolo, magari migliorato e potenziato, a meno. Eccetera.
    IN questo senso, quelli più a rischio sono i benestanti narcisisti alla costante ricerca di conferme. Il numero di opzioni disponibili può alimentare un circolo vizioso, che li fa entrare in loop.

  3. Barisoni l’altro ieri faceva notare che in questa crisi molta gente pare si stia accorgendo che tutto sommato può star bene anche rinunciando a molte cose. Il problema, passata la crisi (ma passerà? con Renzi che non fa altro che continuare ad aumentare le tasse non credo proprio), sarà convincere tutti a ritornare a consumare come prima.
    Ovviamente è un paradosso, e Barisoni esagera spesso, però non è una riflessione da buttare.

  4. me ne accorgo anch’io quando faccio la spesa. Di fronte a ogni articolo mi chiedo: ma davvero non posso farne a meno?
    Magari questa forma mentale (azzerare i consumi) porterà al disastro, o forse consumi e produzione si riconfigureranno in nuovi modi. Per me è arabo.

  5. ieri ho passato quasi tutta la giornata a cercare di tradurre due righe di un pezzo di Hornby, la sua rubrica di recensioni di libri. Come faccio spesso quando sono in difficoltà, chiedo aiuto a un giovane collega molto bravo, via mail. Ci siamo messi in due a cercare di venirne a capo. Uno suggeriva un’interpretazione all’altro, e poi confrontavamo le versioni. Abbiamo finito ora. Quando gli ho fatto notare che da ieri mattina avremo guadagnato sì e no 5 euro, lui mi ha risposto adesso via mail:
    certe cose non hanno prezzo. per tutto il resto c’è pane, olio e cicoria…

    decrescita infelice!

  6. A Death in the Family reads like a novel—get this—in part because the narrator is so excruciatingly truthful, by turns cruel, afraid, disengaged, emotional, cold, self-absorbed, wise, sharp, dreamy.
    In a memoir, we are so accustomed to hearing the autobiographical voice the author wants us to hear that when we come across a voice as apparently and artfully careless as Knausgaard’s is, it seems like a fictional construct.

    1. Io lo intendo così:

      “Una morte in famiglia” ha il sapore di novella – capisci questo – in parte perché il narratore è così straziantemente sincero, a tratti crudele, timoroso, staccato, emotivo, freddo, assorto, saggio, acuto, onirico. Nei libri di memorie siamo talmente abituati ad ascoltare la voce autobiografica che l’autore vuole farci sentire che quando ci imbattiamo in una voce tanto manifestamente e artatamente senza preoccupazioni come quella di Knausgaard, ci sembra un racconto inventato.

      Buttata lì. Immagino che la discussione vertesse sul come rendere meglio i vari termini. Careless per esempio ha delle sfumature che non credo siano riproducibili da una singola parola in italiano (disimpegnato? trascurato?).

  7. la discussione verteva su quali due aspetti stesse contrapponendo Hornby, in realtà; sull’uso del termine memoir (as opposed to autobiography); sul significato e la traduzione di “carefree”; sul significato di quella voce autobiografica che l’autore “vuole farci sentire”; su come riuscire a trovare una forma italiana che avesse un indice di leggibilità decente. Per esempio: come evitare 5 avverbi di seguito?

  8. e ovviamente, se si potesse scrivere “capisci questo” in un inciso, a quest’ora stavamo a kansas city.

  9. Il “capisci questo” è buttato lì come il resto. Nello stile serioso all’italiana si può mettere un noioso “questo è importante”. Avevo badato solo ai significati.

    Io non vedo nessuna contrapposizione tra memoir e autobiografia: semmai tra memoria (o autobiografia) e novella. In sostanza comprendo che per chi ha scritto quelle righe normalmente nelle autobiografie gli autori scelgono di farci sentire una loro voce attenta e “controllata”, mentre qui Knausgaard se ne frega, si lascia trasportare da tutta la serie di “avverbi” risultando più tormentatamente sincero.

    La lista ci sta senza problemi: dopo Eco i lettori credo che una lista così la digeriscano senza nemmeno farci caso. 🙂

    1. Insomma, il termine chiave è “excruciatingly”. Questa dimensione per l’articolista è da riservarsi alla fiction, mentre le autobiografie tendono a toni più piani e sereni. My 2 cents. Voi a che conclusioni siete giunti?

  10. L’ultima versione è questa.

    In un memoir, siamo talmente abituati ad ascoltare la voce autobiografica che l’autore vuole farci sentire, che l’apparente ma studiata noncuranza della voce di K. fa pensare a un’invenzione romanzesca.

    1. Beh ci sta, così è conciso ed efficace. Ma memoir in italiano non l’ho mai sentito, mentre si sente dire “libro di memorie” come sinonimo di autobiografia.
      Non sono convinto sull’ “apparently and artfully”. Messo così sembra che l’autore faccia finta di essere trascurato e in realtà la trascuratezza sia ricercata. L’originale a me dà l’idea che la nonchalance dell’autore sia appariscente, evidente allo sguardo, ma alla fine risulti artisticamente bella. Non finta, non un inganno studiato a tavolino. Questo cercavo di rendere, ma potrei aver preso una cantonata.

  11. artful è stato un altro oggetto del contendere.
    per ora resta così, come smuovi di un millimetro una coloritura o un significato, ti crolla tutto da un’altra parte..

    1. Il problema è che anche così suona un po’ di inganno da parte dell’autore. Il che fa un po’ a pugni con quel “the narrator is so excruciatingly truthful” dell’inizio. Tutta la prima parte lascia pensare ad un’onestà sofferta, sincera ed abbandonata dell’autore. Dire poi che è apparente, studiata a tavolino o addirittura “abile” non mi lascia convinto.

  12. è un castello di carte, o una buca di sabbie mobili, e come ha osservato un utente del forum di Wordreference, “Hornby is as clear as mud”.

    Forse lo toglierò proprio quell’artful, e asciugherò lasciando solo l’apparente noncuranza.

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