Io confesso

La confessione dei peccati è stata a lungo esecrata come forma di controllo sociale esercitato dalla Chiesa Cattolica sulla comunità, oggi direi che questo pericolo si è dissolto cosicché possiamo accostarci al Sacramento con  ritrovata serenità :-). D’altronde, nella mia esperienza, è una delle poche forme di “protagonismo” lasciate al fedele, tanto è vero che, storicamente parlando, non appena il ricorso alla confessione è andato scemando il narcisismo è dilagato altrove: psicoanalisi, “opinionismo” spiccio compulsivo (telefonate in radio, lettere ai giornali…), social network, blog, eccetera. Tutti hanno trovato forme di protagonismo alternative (e quasi sempre più degradanti).

Chissà mai che il Sacramento della Confessione non possa conoscere una sua fioritura, del resto, mentre un tempo esporre i nostri peccati ci rattristava, oggi lo si fa con un malcelato orgoglio, con due occhietti che dicono: “eh, sì, sono proprio un pierino la peste…” (sottotesto: ma di quanta fede è capace il mio cuoricino, altro che quei farisei che vanno a Messa tutte le domeniche). Naturalmente anche questo è un peccato da confessare, magari come sorpresone finale da riservare al confessore.

Tuttavia, c’è ancora molta gente che teme la confessione, i frequentatori di Chiese hanno ben presente il fenomeno: tutti in fila a far la Comunione (che ci si sgranchisce le gambe dopo quasi un’ora di Messa) e nessuno a confessarsi. Il “peso sulla coscienza” non va più di moda. Il problema si è spostato altrove, ora ci si arrovella con il quesito: “e che cavolo gli racconto?”.

Quel che si teme è il “blocco“, non tutti sono abituati a parlare “a comando” di fronte ad un estraneo in occasioni semi-ufficiali. Io per esempio vado nel pallone al solo udire ritmate le paroline di-scor-so-di-scor-so al mio compleanno.

In questo caso evitate i preti stranieri: qualche tempo fa un coreano si è limitato a fissarmi con sguardo inquisitorio mentre mi toccava interpretare uno spossante monologo durato cinque-minuti-cinque. La scarsa dimestichezza con la lingua gli impediva di intervenire cosicché si limitava a fissare. Non so se avete presente, ma parlare per cinque minuti filati, per chi non è abituato a prendere la parola in pubblico, è faticoso come scalare l’Everest.

Per altri motivi, evitate anche i preti anziani: a parte l’alito cattivo, che nel quasi-amplesso del confessionale puo’ risultare letale, hanno sempre fretta e concepiscono solo la Confessione/ciacolatoria. Intervengono praticamente subito (a 5/6 secondi dalla partenza) e per voi reinserirvi nel discorso sarà dura, riuscirete giusto a intrufolare qua e là qualche monosillabo di assenso. Se poi vi vedono la fede al dito siete spacciati: sulla famiglia il loro repertorio è sterminato e vi toccherà cedere il ruolo di protagonisti. Cio’ non toglie che siano dolcissimi, intesi.

A proposito di “blocco”, cominciate con il presentarvi, dite chi siete e cosa fate, i vostri peccati maturano in un contesto che deve essere conosciuto. Poi dite a quando risale la vostra ultima Confessione, il che costituirà di sicuro il vostro primo peccato.  Sono espedienti per rompere il ghiaccio: la sindrome da “blocco” si cura con la parola. Ricordando i miei cinque minuti di “assolo coreano”, definirei il primo minuto come “catatonico”, il secondo come “anchilosato”, il terzo come “sgranchito”, il quarto “al trotto sincopato” e il quinto “a velocità di crociera”. Ormai, al quinto minuto, ero definitivamente lanciato, avrei doppiato agevolmente la soglia dei 10 minuti (la materia prima non mancava). 

C’è poi il terrore della preghiera finale: “e se mi chiede l’atto di dolore senza foglietto davanti?”. Il “Gesù d’amore acceso…” è un conto, ma l’ “Atto di Dolore” no! “Mi pento e mi dolgo dei miei peccati…” e poi? Boh. C’è gente che rinuncia a tutto in preda a simili fantasmi, non scherzo. E allora niente paura: confessate candidamente la vostra ignoranza. Ricordatevi che se siete inginocchiati lì dove siete inginocchiati appartenete già solo per questo fatto ad un’élite: dovete inorgoglirvi, non vergognarvi.

Veniamo ora la parte sostanziale di questo scheletrico vademecum: in confessione bisognerebbe confessare peccati specifici anziché tenersi sulle generali, tuttavia, per setacciarli meglio potrebbe essere utile avere perlomeno una lista di categorie sulle quali concentrarsi. Quella che segue è la mia personale ma scommetto che si adatta facilmente a qualsiasi persona calata nella contemporaneità.

  1. Bolla/Spreco/Misantropia. Indulgere nella propria “bolla”: crogiolarsi oltremisura  in una realtà virtuale costruita su misura per isolarci dal contatto urticante con il reale. Ti accorgi di avere molte energie ma non intendi indirizzarle all’esterno. In fondo, anche l’ intelletto è un muscolo e se lo eserciti per certi lavori poi è stanco per svolgerne altri. Più ci si isola, più ci si rende sensibili, più cresce l’idiosincrasia per il prossimo, per la sua imprevedibilità. L’ “altro” è un nemico da evitare finché si puo’.
  2. Giudizio/Narcisismo/Temperanza. Il giudizio seriale è un vizio diffuso, di solito prende quattro forme. C’ è la componente legata allo scarico di responsabilità: per gestire l’ imprevisto abbiamo bisogno di scaricarci la coscienza assegnando delle colpe. Poi c’ è la forma del giudizio gratuito: il pettegolezzo con giudizio annesso ci seduce. Poi c’ è la dimensione virtuale: abbiamo bisogno di attribuire colpe su scala mondiale sistemando le cose in quattro e quattr’otto, la nostra ignoranza su certi problemi che ci trascendono ci dovrebbe consigliare il silenzio ma non siamo disposti a prestarle ascolto. Qui c’ è una chiara componente narcisistica, la voglia di essere protagonisti e di spiccare per arguzia. Infine c’è il giudizio consolatorio: giudichiamo gli altri e i loro guai per esaltare intimamente la nostra condizione differente.
  3. Rassegnazione/Pigrizia/Fatalismo/anti-curiosità. Accettarsi per come si è con i propri pregi e i propri difetti rinunciando ad ogni forma di progresso spirituale. Ti viene da dire “son fatto così”, punto; e finché non accade un evento traumatico non rifletti mai sulla possibilità che hai di cambiare. In questo modo sfuggono tutti i benefici del “puntare in alto”: chi ci crede, dà sempre di più (si chiama growth mindset). Quando questa capacità viene meno si finisce nel pantano.
  4. Status/Umiltà. A mente fredda  ti accorgi quanto conti per te coltivare la tua immagine e quanto tutto questo incida sulle tue decisioni pratiche. Fai delle cose non per il tuo piacere ma per rispondere alle aspettative altrui, cio’ che temi di più al mondo. Le cose si svolgono al riparo della coscienza ma un esame approfondito le fa emergere. Possiamo parlare di  “spreco” ma anche di mancanza di coraggio: oggi più che mai il contrario del coraggio non è la codardia ma il conformismo.
  5. Cerebralismo. Nel rapporto con la fede capita di privilegiare l’ aspetto razionale – magari impegnandosi nella difesa di talune cause – o nell’ edificare un’ identità formale piuttosto che ricercare una vera e propria esperienza religiosa.
  6. Autocontrollo/Collera. Quella parolina di troppo che scappa o quei gesti, anche violenti, di cui ci si pente subito, e forse anche per questo si tende a sottovalutarne la gravità. Provare il pentimento basta a sentirsi scusati. Non inganniamoci, specie se la pratica si rinnova, si tratta di difetti incancreniti e di peccati mortali. Lavorare sull’autocontrollo prescinde dal pentimento.

Continua.

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